Premessa
Il tema che affrontiamo in questo articolo ruota intorno alla consapevolezza del ruolo dell’intelligenza artificiale nell’ambito della trasformazione digitale in una società, che, come dice il sociologo Castells, è diventata ormai iper-connessa e iper-complessa. Si pensi ai fenomeni della digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma anche a quelli legati alla digitalizzazione delle imprese, qualunque natura esse abbiano (compresi gli studi legali e le associazioni tra professionisti) e al tema del lavoro, oltre che alla sua possibile automazione grazie al ricorso ai robot.
Le intere catene del valore sono, dunque, condizionate dall’acquisizione o meno di competenze digitali e dalla più corretta interpretazione della funzione dell’intelligenza artificiale nei processi sociali in atto.
Gli approcci per affrontare il tema
Sono almeno due gli approcci che garantiscono il perseguimento di questo obiettivo. Il primo è l’approccio interdisciplinare, più che solo multidisciplinare: si tratta di un approccio tecnico, ma al tempo stesso economico, giuridico, sociale e, quindi, anche culturale ed antropologico. In ottica de iure condito, ma anche de iure condendo, non si può prescindere da questo primo approccio. Il paradigma tecno-economico, come scrive il Rettore della Luiss, Prof. Andrea Prencipe, studioso tra i più noti dei modelli organizzativi, è solo uno dei modi per restituire il senso della complessità della digital transformation.
Il secondo è, invece, un approccio diacronico a medio-lungo, e non a breve, termine: non si può regolamentare questa materia pensando solo a domani e non anche (o soprattutto?) a dopodomani. Le scienze sociali ci hanno insegnato che il presentismo, ovvero lo schiacciamento dell’essere umano e del decision making solo sul tempo del presente e non anche sul recupero del passato e del futuro, può causare molti danni ed una gran quantità di squilibri. E’ perciò indispensabile che il legislatore si adegui al cambiamento in atto con tempestività, ma anche con lungimiranza.
Cosa vuol dire innovazione?
L’economista Schumpeter sosteneva che l’innovazione non solo comporta atti di distruzione di ciò che già esiste e la creazione di qualcosa di nuovo, ma anche la combinazione e la trasformazione dello status quo.
Come insegna la Scuola di Toronto e il suo capostipite Innis il determinismo tecnologico ci pone di fronte alle sfide da un lato dovute al fatto che la tecnologia non si limita ad accompagnare il cambiamento sociale ma lo determina, dall’altro che stiamo un po’ tutti, chi più e chi meno, abitando il traghettamento dall’intelligenza collettiva all’intelligenza connettiva.
Apocalittici o integrati? No, meglio “impegnati”!
Era il 1964 quando Umberto Eco pubblicò il libro “Apocalittici e integrati”, immaginando il dibattito sull’uso e l’abuso della tecnologia come separabile in due metà. Da una parte gli scettici e i critici (anche quelli aprioristicamente e pregiudizialmente critici) nei confronti dell’innovazione. Dall’altra gli integrati, ovvero gli entusiasti a prescindere, i profeti di una filosofia fatta di eccessi di ottimismo, fondata su una fede cieca verso il futuro. I primi miopi e passatisti. I secondi inclini alla rimozione delle radici.
Per fortuna si sta facendo strada una terza via, quella degli “impegnati” a governare il cambiamento. Governarlo e non subirlo, come sovente accade.
Intelligenza artificiale: una dicotomia da risolvere
In questo alveo, al tempo stesso metodologico ed epistemologico, si inserisce il tema (certamente non nuovissimo, ma nuovo e stimolante) dell’intelligenza artificiale.
L’IA nasce negli anni cinquanta del secolo scorso, ma solo con il XXI secolo acquisisce la forza d’urto di una vera e propria rivoluzione in grado di impattare negli ambiti più disparati.
In questi decenni una domanda ha accompagnato il discorso pubblico sul tema: l’intelligenza artificiale è un sostituto dell’uomo o un suo alleato che ne vuole aumentare le capacità e le abilità? Da una parte c’è chi, come Jerry Kaplan che insegna Computer Science alla Stanford University, sostiene che stiamo superando il confine o forse che lo abbiamo già superato da tempo. Egli propone di sostituire il termine “intelligenza artificiale” con quello di “computing entropico” (computing significa informatica, mentre entropia significa “trasformazione dentro”). Dall’altro c’è chi ricorda giustamente che le macchine sono mezzi e non fini e che in fondo lo sviluppo economico è guidato più dalla tecnologia che dalla scienza, cioè dalla soluzione di problemi pratici.
L’unica risposta possibile a questa dicotomizzazione del tema sta nel ricorso al buon senso, categoria che non può certo prescindere da alcuni dati di realtà.
Il primo dato di realtà: più di venti anni fa un computer ha battuto il campione mondiale di scacchi Gary Kasparov. Il secondo: i computer fanno più difficoltà ad essere intuitivi, ma talvolta sanno essere anche più razionali degli esseri umani. Il terzo: l’intelligenza artificiale è la simulazione o l’emulazione del ragionamento umano da parte dei calcolatori. Per questo fin dall’inizio i calcolatori sono stati chiamati “cervelli elettronici”. Il quarto ed ultimo dato di realtà: esiste una competizione tra uomo e macchina, ma noi dovremmo fare in modo che gli esseri umani usino le macchine che svolgono certi lavori meglio di noi e che essi si facciano affiancare dalle macchine in quelle attività che svolgono meglio delle macchine stesse. Collaborazione quindi e non competizione.
Il tema si vincola inevitabilmente alla riflessione sul futuro del lavoro e delle competenze necessarie ai lavoratori di domani, ma anche al mondo in cui i sistemi educativi e della formazione professionale (pubblica e privata) devono vivere le opportunità della rivoluzione di cui ci stiamo occupando in questo articolo.
Il World Economic Forum qualche anno fa sostenne che già nel 2022 a livello globale sarebbero stati 133 milioni i posti di lavoro per professioni nuove come i Data Analyst e i Data Scientist, gli AI e Machine Learning Specialist, i Software an Application Developers and Analyst.
La chiave non è quella di consentire che le macchine sostituiscano il lavoro degli uomini, ma che esse lavorino per aumentare le abilità dell’essere umano grazie a percorsi di formazione continua, che devono interessare certamente anche le professioni legali, specie per la “nomodinamicità” del diritto per dirla con Kelsen.
Il contesto al quale far riferimento è, dunque, quello segnato dal passaggio del modello della società industriale a quella postindustriale con una forte attenzione ai e produzione dei beni immateriali. Nella metà dell’Ottocento nove lavoratori su dieci facevano gli operai, oggi il 33% sono operai, il 33% sono impiegati, il 33% sono creativi. Essi arriveranno al 50% nel giro di pochi anni. Come sostiene il sociologo del lavoro De Masi, gli unici che non devono aver paura di perdere i posti di lavoro sono proprio i creativi, anche con l’avvento di nuove tecnologie. Il problema è semmai quello di inserire d’ufficio le professioni intellettuali all’interno della categoria dei creativi, senza porsi il significato denotativo e connotativo di questa operazione, fondata sul combinato disposto di concretezza ed ingegno, di pragmatismo e tensione ideale verso il futuro, sapendo osare.
Riflessioni condivise come questa, in chiave di valorizzazione del valore del networking, servono a perseguire anche lo scopo della presa d’atto della necessità di un cambio di paradigma, anzitutto di matrice culturale.
di Avv. Riccardo Giorgino